Ferruccio De Bortoli

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Che cosa avremmo potuto fare con i circa nove miliardi persi in questi anni dall’Alitalia e pagati in larghissima parte dai contribuenti? Ognuno di noi formuli un’alternativa. Siccome siamo in Italia, sarei pronto a scommettere che la maggioranza della classe dirigente (politica ma non solo) propenderebbe per un vantaggio immediato anziché destinare la cifra a un investimento futuro, come farebbe una normale famiglia o una qualunque azienda seria. Si parlerebbe di un tesoretto – definizione orribile per un Paese indebitato – e si alzerebbero tante mani di richiedenti tignosi, di finte vittime di ingiustizie, di constituency elettorali da accontentare, di settori avidi di sussidi. Un sussulto virtuoso potrebbe suggerire di ridurre le tasse ma si litigherebbe sui beneficiari reali impugnando le ragioni degli incapienti. Figurarci se poi qualcuno dicesse: impegniamo quei miliardi a riduzione del debito. Sarebbe scambiato per un cinico contabile dell’austerità. Escluso. Dunque, continuare a spendere, anche nella certezza di perdere, non suscita riserve, non genera polemiche. Ci sono i posti di lavoro. Già, ma li si difende veramente così o si prolunga soltanto l’agonia mettendoli ancora di più in pericolo? L’ennesimo prestito ponte alla compagnia aerea, una volta di bandiera (ma se fosse ancora così perché molte Regioni incentivano, giustamente dal loro punto di vista, i voli Ryanair o easyJet?) è destinato a essere inghiottito da un bilancio da troppi anni in rosso. C’è un problema di liquidità, innegabile, ma l’Alitalia perde circa mezzo miliardo l’anno. Si tira a campare, dando un calcio alla lattina, nella speranza che si trovi, tra rinvii, proroghe, misure ad hoc, un azionista stabile. I tentativi in passato sono stati numerosi, tra «capitani coraggiosi» — imprenditori italiani, investitori preterintenzionali e costretti per varie ragioni a intervenire—gli ineffabili arabi di Ethiad e via di seguito. L’americana Delta non vuol metterci più del 10 per cento a dimostrazione di un irrefrenabile entusiasmo a investire in Italia. Ritiratasi Atlantia, il resto dovrebbero farlo le Ferrovie dello Stato e il ministero dell’Economia. Insomma, la mano pubblica, cioè tutti noi. La tedesca Lufthansa, che vorrebbe prima una ristrutturazione con migliaia di esuberi, aspetta alla finestra. Ha il tempo dalla sua parte. Si rimpiangono vecchie occasioni. Quando si poteva dare tutto alla Air FranceKlm, che avrebbe pure pagato, ma si opposeroisindacati. È strategico avere un’industria dell’acciaio in un Paese a forte vocazione trasformatriceemeccanica. Non lo è tenere una compagnia di bandiera che ha ormai una quota di mercato interno di oltre il 30 per cento. Nonostante il prestigio, la qualità e il garbo di tantissimi dipendenti di Alitalia che ancora trattano i passeggeri come persone (grazie) e non come merce low cost. Prima o poi bisognerà fareiconti con la realtà. Salvare il salvabile. Accettareegestire al meglio una cura dimagrante. Più si rinvia più si paga. Cioè più pagano gli italiani che già contribuiscono, con un sovrapprezzo su ogni biglietto acquistato, a finanziare un fondo che ha reso possibile, con la ristrutturazione del 2008, uscite con l’80 per cento effettivo dell’ultimo stipendio e uno «scivolo» pensionistico di7anni. Condizioni che lavoratori di altri settori in crisi semplicemente si sognano. E agli imprenditori in difficoltà è assai improbabile che si concedano prestiti — come è accaduto per i 900 milioni assicurati durante la scorsa legislatura all’Alitalia — abbuonando gli interessi passivi. Si impone al contrario dirientrare subito nei fidi. Il nostro Paese è al primo posto di una classifica Ocse per i fondi devoluti a imprese decotte. Non è un caso. È un primato che dovrebbe sollevare qualche interrogativo. Cominciamo, almeno, a non chiamare più prestiti (e ponte: verso che cosa?) quelli che sono semplicemente fondi perduti. O meglio: perduti da tutti.