Seduto in una terrazza a forma di colosseo che domina il Padiglione Italia alla China International Import Expo di Shanghai, Luigi Di Maio manda una serie di messaggi. «Faremo i conti sull’interscambio con la Cina e sulle nostre esportazioni a marzo del 2020, a un anno dalla firma del memorandum d’intesa sulla Via della Seta». E ancora: «L’intesa firmata a Roma con Xi Jinping ha dato un grande sviluppo alle relazioni bilaterali ed è anche un’apertura di credito, la Via della Seta vale più dei soli investimenti e dei commerci e qui a Shanghai ho detto chiaramente ai cinesi che ci aspettiamo ancora di più e che i nostri due Paesi non sono mai stati così vicini». Bene, ma qual è lo stato dei rapporti con la superpotenza americana? Di Maio sembra rilassato: «Credo che il presidente Trump, che è un uomo di business, abbia sempre compreso l’importanza che noi diamo all’export e al commercio estero, noi abbiamo necessità di guardare a Est; ma dagli Stati Uniti non è mai arrivato un attacco sulla Via della Seta; l’unica preoccupazione che avevano gli americani, e che avevamo anche noi, è sul 5G» (quello di Huawei, ndr). Il ministro degli Esteri sostiene che l’Italia sulle reti per telecomunicazioni di quinta generazione ha introdotto la normativa più restrittiva d’Europa e «ora speriamo che tutti i Paesi europei ci seguano su queste regole di sicurezza». A Shanghai il leader del Movimento5Stelle ha ripetuto che l’adesione italiana alla Belt and Road Initiative di Xi Jinping ci dà una grande possibilità di promozione commerciale del made in Italy. Però la Via della Seta è un megaprogetto di infrastrutture per connettere Asia ed Europa, passando dall’Africa, ci sarebbero cantieri per centinaia di miliardi di euro per lastricare il percorso, con linee ferroviarie, autostrade, centrali elettriche, porti e aeroporti. Si era parlato di collaborazione tra imprese italiane e cinesi in Paesi terzi e di investimenti di Pechino nei porti italiani. Poi, dopo la firma del memorandum a marzoaRoma, questi piani sono stati oscurati e si parla solo di export, soprattutto agroalimentare. Risponde Di Maio: «A Roma abbiamo convocato un tavolo Italia-Cina per coinvolgere le nostre imprese delle infrastrutture; per i Paesi terzi dove impegnarci guardiamo all’Africa, dove ci sono progetti avviati dai cinesi che si aspettano la nostra collaborazione, con stile e standard di qualità italiani». Poi un annuncio: «Si firma l’accordo tra Porto di Trieste e CCCC, colosso cinese delle costruzioni. Significa che a Pechino sono interessati a investire da noi per la Via della Seta marittima, guardano anche a Taranto. E il nostro obiettivoèsempre di rafforzare le esportazioni e le nostre industrie». Spiega Ettore Sequi, per quattro anni ambasciatore a Pechino e ora capo di gabinetto della Farnesina: «L’intesa con Trieste serve ad aprire la rotta per i prodotti italiani verso la Cina». Dice al Corriere Zeno D’Agostino, presidente dell’Autorità portuale di Trieste: «Siamo alla fase due rispetto alle intese di marzo. I cinesi si sono impegnati a investire in due piattaforme logistiche nell’area di Shanghai e del Guangdong, collegate con Trieste per favorire l’export di prodotti italiani. Non è in discussione il controllo del nostro porto, che resta italiano, a noi non interessano i soldi cinesi, non siamo disperati come i greci del Pireo, noi vogliamo portare valore nel nostro territorio, costruendo una opportunità di crescita per la città e per le impr ese italiane dell’export». In conclusione, secondo il ministro degli Esteri: «L’agenda economica rimane centrale nei rapporti tra Roma e Pechino. Perché la Cina è il nostro quinto partner commerciale e per l’industria italiana un mercato di sbocco ineludibile». L’impossibilità per i Paesi europei (ma anche per gli Stati Uniti) di rinunciare a un mercato di 1,4 miliardi di consumatori è l’asso di Xi nel poker della globalizzazione. Di Maio vuole restare al tavolo e per valutareibenefici economici eicosti politici chiede di fareiconti nel 2020. Non manca molto per vedere le sue carte.

«Nel suo ultimo discorso in pubblico, trent’anni fa, Zaccagnini parlò dell’esigenza, del dovere, di offrire ai giovani un orizzonte di ideali, una prospettiva di valori per evitare — così disse — l’inaridimento. Inaridirsi è il pericolo che si corre. È un messaggio forte per il nostro momento presente». Sergio Mattarella ricorda il costituenteesegretario della Dc Benigno Zaccagnini, al quale è stato vicino, e certifica il proprio riconoscersi nella lezione d’integrità e moralità che fu dell’«onesto Zac» e dei vecchi dirigenti del cattolicesimo democratico. Lo fa con frasi che sembrano quasi un atto di resistenza, di fronte al passaggio d’epoca che vede oggi il trionfo di un’antipolitica cinicaesenza basi etiche, in lotta per conquistare l’egemonia. Ma frasi che qualcuno legge anche come un’indiretta replica a certe opinioni del cardinale Ruini,riassunte nell’intervista al Corriere di domenica. Com’è ovvio, il presidente della Repubblica non entra nei botta e risposta sulla politica di giornata, anche se a parlarne sono le alte gerarchie vaticane, in carica o scadute. Di sicuro però il suo discorso di ieri a Ravenna ha il sapore di una doppia puntualizzazione, storica e culturale. Ed è un inedito assoluto il fatto che rivendichi — da capo dello Stato—il diritto di intervenire: «Io rappresento tutte le opinioni, le ideologie, le correnti, le posizioni, le convinzioni del nostro Paese. Questo non mi impedisce di sottolineare, per ciascuna di esse, i loro caratteri». Insomma: certe cose sente di doverle dirle. Il primo chiarimento balza evidente mettendo a confronto il giudizio dell’ex presidente della Cei sulruolo dei cattolici democratici, definito «irrilevante», mentre Mattarella si preoccupa — guarda caso — di elencare in quella tradizione alcune «figure esemplari» e decisive nella vita nazionale, «da SturzoaDe Gasperi a Moro». Il secondo chiarimento emerge quando il presule indica un presunto ed esclusivo ancoraggio «a sinistra» di quella tradizione politica, attribuendola appunto alla sola sinistra del partitoedimenticando che nella nozione stessa di cattolicesimo democratico si riconosceva l’intera Democrazia cristiana fin dalle origini, in quanto antifascista. Due pagine di storia su cui Mattarella è sensibile, perché coincidono con la sua stessa biografia. E che lega a Zaccagnini, al quale rende onore come già ha fatto con il liberale Einaudi o il socialdemocratico Saragat, entrambi antifascisti. Il presidente rammenta tante cose della sua frequentazione con l’amico romagnolo. Gli viene per esempio in mente «il giorno in cui al congresso della Dc fu riconfermato segretario e al momento della proclamazione non c’era… Era partito velocemente per Ravenna perché era morto un suo amico. Questo rifletteva il senso di umanità profonda che lo muoveva. Perché la politica non può essere disumana… ma deve semmai mirare alla ricerca del bene comune, al di là dei confini di ideologie, opinioni e fedi». E qui, sull’eclissi degli ideali e sulla disumanità dei nostri tempi evocate da Mattarella, ciascuno può cogliere i riferimenti che crede, secondo le proprie nostalgie. Le cronache politiche parlano da sole.

Anche la pazienza di Nicola Zingaretti ha un limite. Fedele al motto da lui stesso coniato —«Mite sì, ma non fesso» —, il segretario del Partito democratico ormai mal sopporta l’andazzo che sembrano aver preso il governo e la maggioranza. Non si sta parlando solo dell’atteggiamento del leader di Italia viva Matteo Renzi che con le sue incursioni, secondo il governatore del Lazio, sembra avere come unico scopo quello di mettere «in difficoltà il Pd» con «un’operazione di basso livello». No, ormai da qualche tempo in qua Zingaretti non è convinto nemmeno del comportamento di Giuseppe Conte. Sia chiaro, al segretario del Partito democratico non passa per l’anticamera del cervello l’idea di sostituire il premier, però vorrebbe un maggiore interventismo da parte di Giuseppe Conte nei problemi che si aprono ormai sempre più spesso in seno alla maggioranza. «Non possiamo essere sempre e solo noi i responsabili. C’è chi avrebbe il compito di mediare e non di tenersi defilato», ha confidato Zingaretti ai suoi. Poi, intervistato a di Martedì su La7, aggiunge. «Ci sono troppe polemiche. Si può governare insieme da alleati, non da nemici». Insomma, il governatore del Lazio, che non avrebbe voluto dare vita a questo governo, non ha nessuna intenzione di trovarsi nelle condizioni di essere l’unico ad appoggiare l’ esecutivo, mentre gli alleati lo cannoneggiano ogni giorno con il fuoco amico. C’è un altro aspetto dell’attuale gestione che non convince Nicola Zingaretti. Quando si decise di dare vita a questo esperimento con il Movimento 5 Stelle si era stabilito che il governo avesse un’unica cabina di regia per la comunicazione per evitare le fughe in avanti dei vari esponenti dell’esecutivo. Ma questo accordo è rimasto lettera morta e il giornaliero profluvio di dichiarazioni di ministri, viceministri e sottosegretari impensierisce Zingaretti. Dunque il leader del Partito democratico non è più disposto a fare sempre e comunque da scudo umano a Giuseppe Conte. A ognuno il suo ruolo e la sua «responsabilità». Ma non sono solo questi i crucci del presidente della Regione Lazio. Se da una parte il leader del Pd vede rafforzata la sua posizione nel partito, dove ormai anche gli ex renziani suonano la sua musica e dove ieri la commissione ad hoc ha approvato all’unanimità la riforma dello statuto fortissimamente voluta dal segretario, dall’altra vede sfilacciarsi i rapporti con i 5 Stelle. Zingaretti è rimasto negativamente sorpreso dalla repentinità con cui Luigi Di Maio ha bocciato ogni ipotesi di alleanza con il Pd per le prossime Regionali (ponendo un veto anche all’ingresso dei 5 Stelle nella maggioranza della Regione Lazio). Eppure Zingaretti e Di Maio si erano parlati a tu per tu ed erano rimasti d’accordo su questa linea: si sarebbe andati avanti comunque, anche in caso di un risultato negativo in quella Regione che, peraltro, era ampiamente prevedibile. «È un problema di affidabilità». Tra l’altro, come è noto, sulle elezioni in Emilia-Romagna si gioca la tenuta di questo governo e dello stesso segretario del Partito democratico. Per questa ragione al Nazareno di giorno in giorno sale la tensione. Anche se giusto ieri l’ex ministro leghista dell’Agricoltura Gian Marco Centinaio confidavaauna parlamentare del Pd: «In Emilia noi non ce la faremo».

La caccia alle responsabilità altrui è aperta, e infuria. Cenni di autocritica, invece, non se ne vedono. Forse perché le non scelte che hanno portato alla rottura tra la compagnia franco-indiana ArcelorMittal e lo Stato italiano sono così diffuse da far presagire contraccolpi pesanti per tutti. Lo scaricabarile tra maggioranza e opposizione e nel governo era prevedibile. Ma la sensazione è che l’epilogo dipenda dalla debolezza complessiva del sistema politico; e dalla sua incapacità di fare scelte all’altezza di un’economia globalizzata. Salvo soluzioni in extremis, sembra difficile disinnescare una bomba sociale rimasta tale troppo a lungo. Anche perché nessuno dei protagonisti appare disposto a riconoscere gli errori. E il tentativo di creare una sorta di unità nazionale anti-Arcelor Mittal sa di mossa disperata. Se finisce male, la vicenda promette di trasformarsi in una faida politica, in una polemica dai toni elettorali. L’incontro di oggi a Palazzo Chigi tra il premier Giuseppe Conte e i vertici aziendali forse farà capire la ricaduta finale. Rimane il sospetto che la situazione sia sfuggita di mano per difetto di decisioni e di chiarezza, consentendo a una multinazionale estera di ritirarsi da un investimento di interesse nazionale. Rapido, il leader della Lega Matteo Salvini fa sapere di essere pronto a votare ogni misura «utile a salvare i posti di lavoro» a Taranto. E si prepara a scagliarsi contro il governo: sebbene i Cinque Stelle gli ricordino che la Lega votò con loro per abolire l’immunità penale per i dirigenti dell’acciaieria. Ma questo promette di contare poco, se non si trova una via d’uscita. Già lievita l’accusa a Carroccio, Pd e Iv di avere, nel governo precedente e nell’attuale, mostrato subalternità alla cultura antiindustriale grillina. Il ruolo che il Movimento guidato da Luigi Di Maio ha in Parlamento dopo il voto del 2018 gli ha permesso di imporre un’agenda a dir poco controversa. Si è visto sul reddito di cittadinanza, che secondo l’ultimo rapporto Svimez ha prodotto risultati nulli e storture; in crisi come quelle di Alitalia; e ora con l’ex Ilva. Il M5S si difende sostenendo che è ArcelorMittal a violare i patti. Lo ripete Conte, trovando una sponda nel segretario del Pd, Nicola Zingaretti, e in Matteo Renzi, disposti a reintrodurre l’immunità penale: un modo per togliere alibi alla multinazionale. Ma i Cinque Stelle non sono d’accordo, riproponendo il lungo tira-e-molla del passato sull’Alta velocità. Se questa corsa affannosa ai ripari si rivelerà fuori tempo massimo, per il governo può diventare un altro imbarazzante segnale di logoramento.

«Il 7 agosto Salvini mi anticipò la volontà di interrompere l’esperienza di governo con il Movimento5Stelle» mi racconta Giuseppe Conte. «Voleva andare alle elezioni. Non aveva ancora preso una decisione definitiva, ma mi anticipò il suo orientamento. Fui io a suggerirgli di prendersi ventiquattr’ore di tempo e di rivederci l’indomani.» Lasciato Palazzo Chigi, Salvini andò a Sabaudia per un comizio. Rivendicò i risultati di un anno di governo, ma aggiunse: «Negli ultimi due o tre mesi qualcosa si è rotto. Abbiamo ricevuto troppi no. O riusciamo a fare le cose bene e velocemente o non sto a scaldare la poltrona». L’indomani Conte andò da Mattarella e poi rivide il suo inquieto vicepresidente del Consiglio. «Salvini venne nel tardo pomeriggio dell’8 agosto nel mio appartamento a Palazzo Chigi» mi racconta il premier. «Anche questo, come quello del giorno precedente, fu un colloquio tranquillo e cortese. Era il mio compleanno. Aprimmo una bottiglia di spumanteeoffrimmo pasticcini. Lo invitai a riflettere sui tempi della crisi. Una crisi di governo aperta in pieno agosto avrebbe avuto conseguenze gravi perl’intero Paese. Visto che forse non aveva valutatoidiversi passaggi istituzionali, gliriassunsi il prevedibile cronoprogramma di una crisi. Calendario alla mano, andando a votare il prima possibile, il nuovo governo non sarebbe stato operativo se non all’inizio di dicembre. Approvare la legge di bilancio in pochi giorni sarebbe stato impossibile. Salvini mi fece capire che stava pensando di correre da solo e, in caso di vittoria, avrebbe guidato un governo monocolore. «Tu sai quanto ho sudato con la legge di Bilancio precedente per evitare il procedimento d’infrazione», gli dissi “tirendi conto che dovresti affrontare da solo l’esercizio provvisorio di bilancio avendo sulle spalle 23 miliardi per non aumentare le aliquote Iva?”». E lui? «Era visibilmente preoccupato. Gli dissi che metteva in forte difficoltà il Movimento e Di Maio, ma era esattamente quanto gli suggerivano i suoi calcoli politici». Eppure, obietto, Salvini fu l’ultimo nella Lega a volere la crisi. «Io mi sono spiegato la sua decisione in questo modo: la Lega voleva espandersi, gli amministratori locali emergenti scalpitavano, tutti leggevano i sondaggi… Eppure, lui sapeva che un leader politico non può essere un ministro dell’Interno che fa la campagna elettorale solo sull’immigrazione. E poi c’era il problema se andare da solo o no. Immagino che, alla fine, abbia pensato che restare con il Movimento sarebbe stato meglio di un’alleanza con Fratelli d’Italia. Il suo tergiversare fino all’ultimo momento era dovuto anche alla consapevolezza di assumersi una responsabilità enorme». Ho la sensazione che in quei giorni le cancellerie europee la incoraggiassero a cambiare cavallo. «Il fatto che io abbia sempre cercato di avere un buon rapporto con gli altri capi di Statoedi governo non vuol dire che non fossi molto duro nel difendere gli interessi nazionali. Con loro non si è mai parlato della possibilità che io facessi un governo diverso. Quel che è successo era inaspettato per tutti. Forse chi non ama Salvini auspicava una soluzione diversa, ma da qui a parlare di una benedizione ce ne corre.» È tradizione che, quando un azionista decisivo della maggioranza di governo annuncia il ritiro della fiducia al presidente del Consiglio, questi vada a dimettersi. Conte non lo fece e mi spiega così la sua scelta: «Il 24 luglio dissi in Senato che, in caso di crisi politica, sarei sempre andato a riferire in Parlamento. Le crisi di governo non si risolvono con una telefonata. Bisogna portarle alle Camere. Salvini fraintese e disse che io andavo in Parlamento come a raccogliere funghetti in Trentino. L’indomani la mia risposta fu che non mi prestavo a giochi di palazzo e che era assolutamente fantasiosa l’ipotesi che io cercassi alle Camere maggioranze alternativeoche io volessi addirittura fondare un partito. Volevo, in realtà, semplicemente attenermi alle regole della democrazia parlamentare». All’uscita da Palazzo Chigi, il premier disse ai giornalisti: «Lasciamo stare questi giochetti da Prima Repubblica. Non togliamo alla politica la sua nobiltà».

Finanziamenti da centinaia di migliaia di euro elargiti dal costruttore romano Luca Parnasi alla Lega e al Pd. Soldi versati come donazioni e sponsorizzazioni ma che in realtà, questa è l’accusa, servivano a sostenere in maniera occulta i partiti. Per questo i magistrati romani si apprestano a chiedere il rinvio a giudizio dell’attuale tesoriere del Carroccio Giulio Centemeroedell’ex tesoriere pd Francesco Bonifazi, ora passato a Italia viva di Matteo Renzi. Per lui è scattata anche la contestazione di false fatturazioni in concorso con Domenico Petrolo, che nel Pd era componente del dipartimento Cultura. Per la Lega il provvedimento di chiusura delle indagini è stato notificato anche ad Andrea Manzoni, attuale revisore legale del gruppo Lega-Salvini al Senato. «Pagavo la politica» Era stato proprio Parnasi ad ammettere duranteisuoi interrogatori di aver «pagato le fondazioni e le associazioni per arrivare ai partiti e a certi ambienti». Un atteggiamento di collaborazione che gli aveva consentito di ottenere gli arresti domiciliari raccontando i suoi rapporti con i politici: «Mi chiamavano in tanti per farsi sostenere economicamente, io li accontentavo perché poi potevano tornare utili». Pubblicità a «Più voci» Il denaro alla Lega viene versato in due diverse tranche. Attraverso la sua società «Immobiliare Pentapigna» Parnasi, questo scrivono i pubblici ministeri coordinati dal procuratore aggiunto Paolo Ielo «erogava un contributo economico pari a 125 mila euro il 1 dicembre 2015 e un contributo economico pari a 125 mila euro il 12 febbraio 2016 attraverso bonifici bancari a favore dell’associazione “Più Voci” rappr esentata d a Centemero coadiuvato da Manzoni». A far scattare la contestazione di finanziamento illecitoèil fatto che «Più Voci» è, come sottolineano i pm, un’«associazione riconducibile al partito politico “Lega Nord”, quale sua diretta emanazione e, comunque, costituisce una sua articolazione», ma soprattutto che «i contributi sono stati erogati in assenza di delibera da parte dell’organo sociale competenteesenza l’annotazione dell’erogazione nel bilancio», nonostante fosse stata poi giustificata come pubblicità su Radio Padania. Il libro di Eyu Il Pd è stato invece finanziato pagando un libro ben 150 mila euro. I pm contestano infatti a Parnasi di aver «erogato un contributoaBonifazi camuffato attraverso il pagamento da parte di “Immobiliare Pentapigna” di uno studio commissionato dalla Fondazione Eyu avente ad oggetto “Casa: il rapporto degli italiani con il concetto di proprietà” pari a 150 mila euro attraverso due bonifici bancari di 100 mila euro il 1 marzo 2018 e 50 mila il 5 marzo 2018». E accusano: «Al fine di evadere le imposte Petrolo e Bonifazi emettevano in favore della “Pentapigna” una fattura per operazione inesistente».

«Non sono incorso in qualsiasi tipo di conflitto di interessi», mi sono sempre «cautelato astenendomi da ogni attività di governo» che riguardava la società per cui «avevo redatto un parere pro veritate». Il capo del governo Giuseppe Conte, su richiesta delle opposizioni, riferisce alla Camera, ricostruendo la vicenda della società Retelit e la sua attività di consulenza professionale, prima ancora che fosse nominato premier. Ecco le sue parole, per smentire ricostruzioni «molto lontane dalla verità dei fatti. Al fine di redigere il parere non ho mai incontrato gli amministratori o gli azionisti della società. Non ero dunque a conoscenza — né ero tenuto a conoscere — che tra gli investitori vi fosse il signor Raffaele Mincione o che parte degli investimenti risalissero, come è stato ipotizzato da alcuni organi di stampa, alle finanze vaticane». Finanze che sarebbero servite, attraverso Mincione, si è appreso nelle ultime settimane, per acquistare due immobili nel centro di Londra. L’investitore principale in Fiber 4.0 è il fondo Athena Global Opportunities, finanziato interamente per 200 milioni di dollari dal Segretariato Vaticano, gestito da Raffaele Mincione. Mentre Fiber è azionista di minoranza di Retelit. Conte però nega di essersi occupato di attività societarie, ma solo del profilo possibile, dell’applicabilità, della normativa sulle regole del golden power, il potere del governo di imporre ad alcune aziende certe restrizioni in caso di attività strategiche per l’interesse nazionale: «Ho accettato l’incarico di redigere il parere per la società Fiber 4.0 quando non ancora ero stato designato presidente del Consiglio, in un momento in cui io stesso non potevo immaginare che di lì a poco sarebbe nato un esecutivo da me presieduto, che poi sarebbe stato chiamato a decidere sull’esercizio o meno della cosiddetta golden power». Il parere pro veritate verteva sul possibile esercizio, da parte del governo, dei poteri di golden power nei confronti di Retelit una società di tlc che gestisce più di 12 mila chilometri di fibra ottica. Il parere redatto da Conte riteneva opportuno l’esercizio del golden power e poche settimane dopo il governo, «presieduto in quel caso da Matteo Salvini», ricostruisce Conte, effettivamente deliberò di esercitare questi poteri. Replica di Salvini: «Questi sono paranoici e ossessionati, anche i conflitti di interesse di Conte sono colpa di Salvini. Ma come vivono male questi?». «Per diradare ogni residuo dubbio — ha continuato Conte — preciso che il parere stesso non ha avuto a oggetto la decisione di esercitare la golden power, ma ha riguardato esclusivamente l’applicabilità o meno della disciplina». E per evitare ogni conflitto di interessi scrissi al Segretario generale informandolo della mia determinazione ad astenermi dalla partecipazione in qualsiasi forma a questo procedimento». Inoltre «la piena correttezza del mio operato è stata certificata anche dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, istituzionalmente deputata, nel nostro ordinamento, a vigilare sulle ipotesi di conflitto di interesse dei membri del governo». Bagarre, nell’aula della Camera, al termine dell’informativa: a scatenare la tensione Anna Macina (M5S), che ha accusato Matteo Salvini di essere «scappato dal confronto parlamentare», quando era ministro dell’Interno, «dal caso Arata fino all’inchiesta su Savoini». Immediata la reazione dai banchi della Lega, con cori «elezioni, elezioni»

C’è una partita finanziaria che vale 280 milioni dietro il braccio di ferro politico su Conte e Retelit. Nel mirino c’è il decreto del Conte 1 del 7 giugno 2018 che applica il golden power, ovvero un vincolo speciale del governo su società strategiche, a Retelit, media società di comunicazioni e fibra ottica. L’azienda era appena passata sotto il controllo di una cordata libico-tedesca, che aveva sconfitto il finanziere Raffaele Mincione (che — ha svelato lui stesso — usava soldi del Vaticano). Conte si astenne e non partecipò al Consiglio dei ministri per non trovarsi in conflitto di interessi: questo perché, pochi giorni prima, da avvocato, aveva rilasciato alla società Fiber 4.0 di Mincione un parere in cui dichiarava che la legge sul golden power poteva essere fatta valere su Retelit, in quanto non era stato comunicato al governo che il controllo era passato alla società libica di Stato Lptic e ai tedeschi del fondo Axxion. Il 4 dicembre al Tar del Lazio si discuterà il ricorso. Se cancellasse il golden power, in Borsa Retelit volerebbe (ha fatto già +17% nell’ultimo mese e ora vale 280 milioni) e libici e tedeschi potranno venderla a prezzi più alti. Anche a soggetti esteri. A presentare l’esposto, ad aprile 2018, era stato Mincione, per fermare i libici. Un mese dopo chiese due pareri, allo studio Gianni Origoni Grippo Cappelli (Gop), arrivato il 9 maggio, e a Conte. «Abbiamo chiesto un parere a uno studio legale, che purtroppo aveva scritto un’opinione che non andava nella nostra direzione» spiegò Mincione al Corriere lo scorso gennaio, «quindi ci suggerì il nome di un avvocato che aveva la nostra stessa scuola di pensiero. Era quello di Conte. Io non l’ho mai incontrato, l’incarico lo ha dato un mio collaboratore». Dallo studio Gop fanno sapere di non aver dato a Mincione alcun suggerimento sulla opportunità di rivolgersi ad altri avvocati. Sarà stato qualcun altro. I pareri vanno nella stessa direzione: i libici controllano Retelit. Conte fa un passo in più: si può annullare l’assemblea. Proprio quello a cui Mincione puntava. Era il 14 maggio. La sera prima Conte incontrò in un hotel di Milano Luigi Di Maio e Matteo Salvini e divenne premier in pectore di Lega-M5S, come ha ricostruito Quarta Repubblica di Nicola Porro su Rete 4. «Ho accettato l’incarico in un momento in cui io stesso non potevo immaginare che di lì a poco sarebbe nato un esecutivo da me presieduto, che poi sarebbe stato chiamato a decidere su Retelit», ha detto ieri Conte. Per Mincione una coincidenza fortunata.

«Bisogna prepararsi all’eventualità di un’altra cordata». Michele Emiliano, presidente della Regione Puglia, non ha dubbi: ArcelorMittal ha deciso di lasciare l’ex Ilva e lo farà. «E io lo avevo detto due anni fa, mi bastò vedere quante acciaierie avevano in Europa per capire che Taranto non sarebbe stata una priorità». Presidente, ma se il governo non avesse tolto l’immunità penale, ArcelorMittal avrebbe proseguito per la sua strada. «Ma ArcelorMittal non abbandona mica per l’immunità penale, una cosa che non esiste in nessuna parte del mondo e che stava per essere esaminata dalla Corte costituzionale. Il vero motivo è la crisi generalizzata del settore che ha indotto ArcelorMittal a ritenere di aver sbagliato a stipulare il contratto». L’azienda nelle sue motivazioni inserisce anche il provvedimento del tribunale di Taranto sull’Altoforno 2, facendo riferimento al termine del 13 dicembre, stabilito dal custode giudiziario e dirigente della Regione Puglia, Barbara Valenzano. «Se i tempi prescritti non fossero realistici, basterebbe dimostrarlo. I giudici sono persone serie e ne terrebbero conto. Temo che la mia ipotesi iniziale, cioè che ArcelorMittal avesse preso l’Ilva per acquisire clienti e quote di mercato, sia quella giusta». Ma come se ne esce? «Se ArcelorMittal confermerà la sua decisione, bisognerà pensare a un’altra cordata». Ma i tempi per una nuova gara sarebbero lunghi. «Si può fare anche in tempi brevi. Del resto si può a provare anche a chiamare la cordata arrivata seconda». Quella per cui lei ha sempre fatto il tifo. «Io ho tifato per la decarbonizzazione dell’Ilva, non per una cordata. E Jindal prometteva la decarbonizzazione, come Lucia Morselli che oggi è passata con ArcelorMittal». Ce l’ha con Morselli? «No, è un manager e non un politico e quindi fa scelte di mercato. Noto soltanto che proprio quando avevamo cominciato ad avere un buon rapporto con il suo predecessore, Matthieu Jehl, lo hanno mandato via». All’ipotesi Jindal sembra ammiccare anche Renzi. Avete punti in comune. «L’unico, probabilmente. Ma è un dato di fatto che Renzi preferisse la decarbonizzazione. Del resto la scelta di ArcelorMittal non fu sua ma di Carlo Calenda». Che era un ministro del suo governo. «Ma gli lasciò la giusta autonomia». Ma lo sa che anche Jindal chiedeva l’immunità penale per errori commessi da precedenti gestioni? «Il discorso non cambia anche per loro: non si possono fare norme ad hoc per le aziende. Si può pensare a una norma generale, che valga per ArcelorMittal o Jindal e per tutte le altre aziende. Non per una sì e un’altra no». Se questa norma dovesse arrivare ci sarebbero margini per un ritorno di Arcelor, magari con canoni di affitto più bassi e un’acciaieria più piccola? «Non lo so. Di certo però il governo italiano non può accettare un ricatto occupazionale e ambientale. Perché i due temi vanno necessariamente a braccetto. E nessuno meglio di noi pugliesi lo sa: mi faccia chiudere con questa rivendicazione, in onore delle migliaia di persone morte prematuramente a causa dell’impatto ambientale di quella fabbrica».

Somiglia a uno scudo, ma scudo non è. I ministri che lavorano al dossier lo chiamano «immunità penale» ed è lo strumento con cui il governo di Giuseppe Conte vuole «togliere ogni alibi» ai vertici di ArcelorMittal, per costringere il colosso mondiale dell’acciaio a rispettare il contratto che li lega alla ex Ilva di Taranto. Per Giuseppe Conteèuna partita decisiva e il presidente vuole giocarla a carte coperte. «Se anticipassi le soluzioni possibili sarei più debole nella trattativa», ha spiegato l’inquilino di Palazzo Chigi alla vigilia dell’incontro con «gli indiani», che oggi a porte chiuse ribadiranno al premier la ferma volontà di abbandonare l’Ilva al suo destino. Uno scenario così drammatico, per Taranto, per l’Italia e per l’esecutivo giallorosso, che Conte, spronato dal Quirinale a risolvere presto e bene il caso, ha chiamato a raccolta l’intera squadra: «È il momento della responsabilità». E così, dopo le polemiche furibonde di lunedì, nella maggioranza i toni sembrano essersi fatti meno striduli. Va bene la competizione politica, ma nessun partito ha interesse a sfidare la rabbia e il dolore di una città ferita. Matteo Renzi ha smentito di voler ripescare la cordata Jindal, dai microfoni di Radio1 si è messo sulla lunghezza d’onda di Palazzo Chigi(«Se Mittal se ne va, gli si chiede i danni e si passa al secondo») e ha persino dato ragione a Conte. Adesso sulla «linea dura» sembrano tutti d’accordo, pur con i distinguo che caratterizzano la maggioranza giallorossa. Il governo sarà «inflessibile»enon accetterà ricatti da chi gioca sulla pelle delle famiglie di Taranto, è il senso dell’ultimatum che Conte si prepara a scandire. Il premier, che si è studiato da giurista ogni cavillo, è determinato a smascherare il «bluff» di ArcelorMittal e convincerla a tener fede agli impegni presi. Con le buone, o con le cattive. Perché non c’è nel contratto alcuna clausola che giustifichi un recesso legato allo scudo penale. Come ha spiegato Stefano Patuanelli, il problema sono «i quasi 2 milioni» che il colosso perde ogni giorno per aver sbagliato il piano industriale. Per il ministro dello Sviluppo esiste solo il piano A: obbligare il gigante indiano a non fare i bagagli. «Mittal — ragiona il premier, preparando l’arringa — ha promosso una iniziativa giudiziaria per far accertare la legittimità del suo atto di recesso. Pensano di sfilarsi dagli impegni contrattuali in questo modo? Confido che ci ripensino, perché per loro sarebbe una battaglia legale durissima». Conte farà la voce grossa, ma al tempo stesso cercherà una mediazione. Si ragiona di decreti, però con cautela, perché la fronda del Movimento Cinque Stelle al Senato alla sola parola «scudo» minaccia l’incendio. «Ho una sola parola ed è no»,ripete la senatrice Barbara Lezzi. Ma Di Maio si appella alla realpolitik: «La priorità è salvare i lavoratori». Il Partito democratico preme per la formula proposta dal ministro Beppe Provenzano: una norma generale, che garantisca tutte le aziende impegnate in opere di risanamento ambientale, senza che debbano rispondere penalmente di responsabilità pregresse. Se si riuscisse a sciogliere il nodo dell’ammissibilità, la norma salva-Taranto finirebbe nel decreto fiscale. Per Patuanelli la soluzione individuata «non serve», ma per salvare la città anche il responsabile dello Sviluppo è prontoadire sì, «purché non sia una norma ad personam». In gioco c’è il Pil dell’Italia e anche il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha messo la faccia sulla battaglia campale del governo, intonando il celebre whatever it takes di Mario Draghi: «Dobbiamo fare di tutto per evitare un esito drammatico, costi quel che costi».