Ridurre (ancora) le imposte si può, parola di Giuseppe Conte. La propaganda di Salvini contro il governo «tasse, sbarchi e manette» lo ha stancato. Il premier non ne può più di sentire il leader della Lega tuonare un giorno sì e l’altro pure contro una manovra che, tra Palazzo Chigi e Via XX Settembre, è stata studiata «per dare ai cittadini e non pertogliere». E così, ora che la legge di Bilancio ha iniziato il suo iter in Parlamento, Conte inverte la marcia. E ribalta, prima ancora dei numeri, la comunicazione, su un tema che è in cima ai pensieri degli italiani. «Sto lavorando con il ministro dell’Economia Gualtieri perché voglio ridurre ancora di più le tasse, come ad esempio quella sulle auto aziendali — dichiara il premier al Corriere —. Faccio un appello ai gruppi parlamentari di maggioranza a collaborare con il governo, perché tutti ci si impegni a raggiungere questo risultato. Completiamo l’opera e chiudiamo il cerchio, possiamo essere ancora più ambiziosi». In tanti, e non solo nei partiti dell’opposizione, salteranno sulla sedia a sentire Conte che definisce ambiziosa la manovra del governo giallorosso. Ma il presidenteèfortemente convinto che lo sia e che si possa azzardare anche qualcosa di più. «Dopo i notevoli sforzi fatti da tutti noi con la sterilizzazione delle clausole Iva per 23 miliardi, non posso accettare la falsità che questa possa essere descritta come una manovra che aumenta le tasse — insiste il premier, mostrando di essere molto arrabbiato per critiche e attacchi che ritiene ingiusti e strumentali —. La pressione fiscale infatti non è aumentata. Deve vincere la verità, contro le mistificazioni e le menzogne». E la verità, stando ai calcoli del governo, è che le tasse imposte sono «appena il 5 per cento» di una Finanziaria da trenta miliardi. E qui Conte ricorda le «numerose misure a favore delle famiglie e delle imprese, i tre miliardi ai lavoratori eitre come superbonus». Per quanto possa sembrare lunare, tra Palazzo Chigi e Mef si ragiona dell’obiettivo «zero tasse» e si fa di conto, per vedere se e quanto sia possibile rimodulare da subito la plastic tax. Luigi Di Maio pensa che serva a «dare una scossa» sul fronte green e Conte non intende ignorarlo, ma il 26 gennaio si vota in Emilia-Romagna e il governatore del Pd, Stefano Bonaccini, ritiene «una follia» penalizzare una regione che ha 228 aziende nel settore della plastica. Conte insomma comincia a temere che sia stato un errore aver dato al Paese l’impressione che la manovra sia zeppa di microtasse, pensa che sarebbe stato meglio dare al Mef più tempo per tagliare gli sprechi e medita di correre ai ripari. In questa fase, delicatissima per la maggioranza, il capo del governo vuole stemperare i toni e sta bene attento a non accusare le forze che lo sostengono. Ma forse in cuor suo spera che l’appello ai gruppi parlamentari faccia fischiare le orecchie a Matteo Renzi, che dopo aver bocciato l’imposta sulle auto aziendali («inspiegabile mazzata alla classe media») ha definito insufficiente la manovra del governo e lanciato un «piano choc» da 120 miliardi per ridurre l’Irpef. Conte, per quanto pensi che «tutti vogliono la riduzione delle tasse e nessuno deve cercare l’applauso per questo», non sfida l’ex premier e spera anzi di riuscire al più prestoapacificareirapporti tra Pd, 5 Stelle, Italia viva e Leu. Però è determinato a sradicare il pericoloso meccanismo che porta le singole forze a inseguire il consenso a colpi di slogan piantando le loro bandierine, senza troppo curarsi della tenuta del governo. «I sondaggi — ragiona in questi giorni il giurista pugliese — dimostrano che le continue punzecchiature non pagano e sono un assist a Salvini». Per dire del metodo, sembra che il presidente abbia apprezzato lo stile con cui il ministro di Leu, Roberto Speranza, ha accettato di condividere con gli alleati il merito dell’eliminazione dei superticket. «Dobbiamo ragionare in un’ottica di maggioranza», ripete Conte ai ministri. E cerca in agenda una data per una gita «in pieno relax», per fare squadra, conoscersi meglio e imparare a coordinarsi.

C’è un nome che domina le cronache dedicate al disastro dell’Ilva ed è quello di Barbara Lezzi, senatrice dei Cinque Stelle ed ex ministro per il Sud nel governo Conte-1, sospettata di nutrire propositi di vendetta dopo la sua esclusione dal nuovo esecutivo. Carlo Calenda, ma non solo lui, la giudica responsabile più di altri per la rottura con ArcelorMittal: sarebbe suo l’emendamento che ha eliminato lo scudo legale, ovvia garanzia per l’investitore straniero, e ha innescato la grande fuga. Al punto in cui sono giunte le cose, sembra un po’ eccessivo scaricare tutte le colpe sulle spalle di questa signora, che peraltro simboleggia bene la testardaggine ideologica del Movimento grillino, tanto che dal suo punto di vista si dichiara fiera di aver contribuito a un tale esito della vicenda. È ovvio peraltro che le responsabilità della devastazione sono molto più diffuse e investono a vario titolo un ampio spettro di partiti, compresi quelli che adesso fingono di non essere coinvolti oppure si fanno sentire promettendo con temerarietà di reperire presto (sic) un altro compratore sulla scena internazionale. Comunque sia, Barbara Lezzi si è guadagnata il suo quarto d’ora di celebrità e forse ha posto le basi per un rilancio della sua carriera politica, magari come candidata alla presidenza della Regione Puglia. Ma quello che colpisce è la spavalderia con cui la senatrice ha raccontato di come sia la Lega sia il Pd sono stati messi nel sacco da lei e dunque giocati — quasi a loro insaputa, par di capire — per ottenere la decadenza dello scudo. Il resto è storia nota, fino ai frettolosi tentativi del Pd e di Renzi, in queste ore, volti a reintrodurre le fatidiche garanzie legali. Il che pone il ceto politico di fronte a un bivio fatale, ammesso che si riesca davvero a restaurare la protezione giudiziaria in modo credibile. Da un lato c’è l’ipotesi che l’investitore receda dalla decisione di fuggire e il discorso riprenda dove era stato interrotto. Sembra piuttosto difficile che ciò accada, considerando anche i toni stizziti con cui il presidente del Consiglio — stavolta spalleggiato da Renzi — promette una linea “inflessibile”; mentre il segretario della Cgil, Landini, esclude che si possa riaprire la trattativa sul piano industriale. In altri termini, scudo o non scudo, Mittal si sta allontanando. Dall’altro lato c’è il punto messo in luce da Calenda: qualsiasi altro investitore vorrebbe le stesse garanzie legali a suo tempo chieste da Mittal. Tuttavia fornirle a un nuovo compratore dopo averle rifiutate al precedente significa esporsi a una valanga di ricorsi con richiesta di maxi penali. Tutti punti che i nostri politici sembrano sottovalutare. Ecco allora che sullo sfondo prende forma l’intervento pubblico, magari attraverso una forma di nazionalizzazione più o meno mascherata. Bisogna però tornare dove abbiamo cominciato: alla figura emblematica di Barbara Lezzi. Nessuno meglio di lei incarna l’inesistente classe dirigente espressa dal M5S: inesistente e priva di competenze, ma in grado di contaminare in negativo il Pd. Che di fronte ai grillini è cedevole e remissivo in forme sorprendenti. Doveva essere il Pd, con la sua tradizione ed esperienza, a fagocitare gli inesperti 5S fino a rendere convincente l’alleanza a due proprio sul terreno dei contenuti e delle riforme. Ma sta accadendo proprio l’opposto.

Lo stabilimento siderurgico di Taranto, entrato in funzione 55 anni fa, è stato fin dall’inizio una fabbrica sbagliata, con percentuali intollerabili di incidenti sul lavoro e di avvelenamento della popolazione residente intorno alle sue ciminiere. Una fabbrica sbagliata che nel passaggio dalla proprietà pubblica ai privati ha arricchito imprenditori rapaci prima di arrivare oggi al concreto rischio di chiusura, che sommerebbe catastrofe sociale alla catastrofe ambientale già perpetrata. Il grande sconfitto, insieme ai tarantini, è il riformismo: ovvero qualsivoglia progetto di riconversione che rendesse compatibile la produzione dell’acciaio con la bonifica del territorio. Sviluppo e salvaguardia dell’ambiente: in altri Paesi europei ci sono riusciti. A Taranto ci hanno provato in tanti, almeno a parole. Non ci è riuscito nessuno. La fame di lavoro del Mezzogiorno, la miopia dei boiardi delle Partecipazioni Statali, e in seguito la rapacità di un’impresa privata, la Riva, bene inserita nell’establishment, hanno concorso a portare sull’orlo dell’abisso il più grande stabilimento industriale italiano, fornitore della materia prima su cui si regge gran parte del nostro settore manifatturiero. Chi s’illude che un tale evento — la chiusura dell’acciaieria — non possa davvero verificarsi, evidentemente ha dimenticato la “notte dei fuochi di Crotone”. Era il 6 settembre 1993, quando una sommossa popolare appiccò il fuoco agli stabilimenti dell’Enichem, della Pertusola e dell’indotto, cioè del polo chimico calabrese di cui era stata annunciata la chiusura definitiva. Nel giro di pochi anni Crotone è passata dal reddito più alto al reddito più basso dell’Italia meridionale; e ancora deve fare i conti con i veleni lì seppelliti. Rileggo l’amaro resoconto del tarantino Alessandro Leogrande, scritto nel 2016 mentre accompagnava suo padre a fare la chemio. Il quarto centro siderurgico italiano, l’Italsider di Taranto, nasceva alla metà degli anni Sessanta come «un progetto barbarico d’industrializzazione» (parole di Antonio Cederna). L’allarme lanciato dagli ambientalisti rimase inascoltato. Anzi, nel decennio successivo l’impianto venne raddoppiato, accumulando a cielo aperto nel cosiddetto Parco minerario le tonnellate di polveri rossastre che il vento sospingerà ad avvolgere il rione Tamburi. Fino a provocare, in certi momenti, la chiusura temporanea delle scuole perché era meglio che i bambini non uscissero di casa. L’ultima volta è successo nel marzo scorso. Statistiche inequivocabili certificano il boom delle malattie neoplastiche e respiratorie, con innalzamento brutale della mortalità. Invano si cominciò a predicare la necessità di far coesistere la salvaguardia della salute con lo sviluppo. Perché l’imperativo numero uno rimaneva scongiurare la chiusura della fabbrica, giunta fino a un organico di ventimila dipendenti. Manager e periti senza scrupoli non esitarono a falsificare i dati sulle emissioni. Di fronte all’evidenza, nel 2010 il governo Berlusconi varò perfino un decreto legge che rinviava di quattro anni il rispetto dei limiti di benzo(a)pirene, sostanza tossica cancerogena. Passando di deroga in deroga, la politica come al solito ha finito per scaricare sulla magistratura l’obbligo di tutela della salute dei cittadini. Salvo poi accusare di abuso di potere la procura di Taranto quando, nel 2011, fu avviata un’indagine per “catastrofe ambientale” che portò al sequestro dell’area a caldo e allo spegnimento di un altoforno. Ricordo ancora il titolo con cui Libero azzannò la gip Patrizia Todisco: “La zitella rossa che licenzia 11 mila operai Ilva”. Allora i Riva, che passavano per padroni illuminati, autorizzarono gli operai a inerpicarsi per protesta sul nastro di carico (posto a 60 metri d’altezza) dell’altoforno di cui era stato decretato lo spegnimento; e incoraggiarono tutti i loro dipendenti a scioperare contro la magistratura. In piazza Gesù Divin Lavoratore, cuore del rione Tamburi, si toccava con mano il dramma lacerante di migliaia di famiglie colpite da lutti eppure bisognose di quei posti di lavoro. Si scambiavano accuse di tradimento, non si sapeva più se dare retta ai sindacati che dicevano “la produzione prima di tutto”, o ai giudici che dicevano “la salute prima di tutto”. Chi invece aveva già perso ogni credito di fiducia era la classe politica locale, corrotta non certo solo dalle bustarelle dei Riva. Era il 2012. Sei anni dopo, il 4 marzo 2018, il Movimento 5 Stelle avrebbe raggiunto il 47% dei voti nella città di Taranto. La speranza riformista era già tramontata, cedendo il passo a una protesta priva di obbiettivi realistici: al dunque, neanche chi vagheggiava di riconvertire l’Ilva trasformandola in parco tecnologico ebbe il coraggio di chiedere sul serio la chiusura della fabbrica. Così arriviamo al ricatto odierno esercitato dalla nuova proprietà, ArcelorMittal. Che si è aggiudicata l’impianto promettendo, come già i suoi predecessori, l’avvio di un piano di bonifica, a condizione di godere di uno scudo penale: una manleva sui trascorsi di questa fabbrica sbagliata ma ancora potenzialmente redditizia. Nella catena mondiale della siderurgia, la fabbrica sbagliata è diventata l’anello debole su cui una multinazionale può infierire, interessata com’è soprattutto a inibire l’espansione della concorrenza. Risultato che oggi può conseguire sia attraverso consistenti tagli occupazionali (si parla di 5 mila esuberi), sia chiudendo la fabbrica dopo aver scongiurato l’insediamento della cordata rivale. Chi adesso torna a scaricare la responsabilità sulla magistratura, colpevole di aver cercato di esercitare il dovere costituzionale di tutela della salute dei cittadini, ha la coda di paglia. Il sindacato che chiede il ripristino dell’immunità penale per ArcelorMittal in cambio dell’impegno a non licenziare, fa il suo mestiere ma minimizza il problema dell’inadeguatezza degli impianti. Mezzo secolo dopo, le metastasi della fabbrica sbagliata rischiano di assestare un colpo esiziale all’intera struttura industriale di un paese che per vivere ha bisogno di acciaio e di aria pulita.

Matteo Gastaldo, Marco Triches e Antonio Candido sono morti compiendo il proprio dovere, travolti da un’esplosione di origine dolosa mentre stavano cercando di spegnere un incendio in una cascina a Quargnento, in provincia di Alessandria. In un’epoca in cui il valore della “cosa pubblica” e degli ideali sembra essere venuto meno, e in cui chiunque sembra agire sempre e solo in base ai propri egoistici interessi, le immagini che ritraggono alcuni vigili del fuoco che si abbracciano dopo aver ritrovato il corpo esanime dei loro tre colleghi ci ricordano come, anche nella nostra vituperata Italia, esistono persone che credono nelle istituzioni e nel valore della propria funzione. Persone che, svolgendo il proprio lavoro, sono capaci di non tirarsi indietro. Anche quando è in gioco la propria vita, e compiere il proprio dovere significa accettare il rischio di morire. Dietro il sacrificio di questi tre giovani pompieri, c’è d’altronde non solo un forte senso dell’onore e dell’etica, ma anche un monito a tutti coloro che pensano che non valga più la pena di battersi né per il proprio Paese, né per il bene comune, né per l’onore, né per il dovere. Un tempo, esisteva un legame indissolubile tra onore e credibilità, senso del dovere e sacrificio. Chi non ricorda l’esempio di Attilio Regolo? Fatto prigioniero dai Cartaginesi, il Console fu spedito a Roma per negoziare la pace e trattare il cambio dei prigionieri. Attilio Regolo sconsigliò allora i Romani di accettare la proposta ma poi, fedele alla parola data, tornò a Cartagine dove venne immediatamente condannato a morte. Avrebbe potuto salvarsi, ma pacta sunt servanda: il proprio ruolo gli aveva imposto di non cedere, di essere fedele alla propria patria, di sacrificarsi. Certo, con l’avvento della modernità, l’onore ha progressivamente lasciato il posto alla massimizzazione dell’interesse individuale: come ha scritto lo storico e sociologo statunitense Christopher Lasch a proposito di quella che lui chiama la “cultura del narcisismo”, oggi sono spesso considerati eroi coloro che brillano «nell’arte di far le scarpe agli altri», e che riescono a non lasciarsi mai coinvolgere dai “dettagli della moralità”. L’esempio dei tre giovani pompieri che hanno sacrificato la propria vita, però, ci dice e ci insegna tutt’altro: ci sono ancora ideali cui rendere testimonianza con il proprio impegno, il proprio lavoro, e eventualmente il proprio sacrificio; e i veri eroi sono persone come loro, persone che, senza cedere al fascino di qualche “mi piace” ottenuto sui social, mostrano la loro grandezza e il loro eroismo con la coerenza e il coraggio della propria condotta.

Nella Chiesa in decadenza si rifugiano i più viziosi peccatori perché la crisi dei suoi valori li mimetizza e li rende invisibili. E infatti, tra i tanti delinquenti che in Italia hanno militato nella virtù, tra mafiosi antimafia come Montante, magistrati malandrini e tangentisti antitangente, non c’era mai stato un radicale sradicalizzato. Invece ora si scopre che questo Antonello Nicosia (ma chi lo conosceva?) è riuscito a infiltrarsi nel purissimo garantismo garantito da Pasolini, Tortora, Sciascia, Pannella ed Emma Bonino. Ha indossato il saio radicale non, come hanno scritto, per entrare in carcere e fare il portalettere della mafia di Matteo Messina Denaro, ma per lucrare, una volta in carcere, sulla parola “radicale”. In prigione entrava infatti come assistente — nientemeno — di una deputata (non indagata) della sinistra di Pietro Grasso, ma era iscritto a Radicali italiani — nel Comitato nazionale! — perché questa medaglia, che abbaglia più dell’antimafia dello stesso Grasso, lo rendeva sacerdote della libertà, arbitro dei diritti e dei doveri del detenuto. E quando trafficava, anche in piccole tv libertarie, con i valori radicali, nessuno si accorgeva che c’era troppo inferno in quella maschera transgenica. Eppure era doppio come Pantalone e mentiva anche a stesso quando goffamente tra i tanti maestri di valori scomodava Habermas, Voltaire, Brecht, Dostoevskij, Bobbio, Hermann Hesse, i Papi e Manzoni. Era dunque invisibile non solo ai Radicali Italiani e dunque a Emma Bonino, Marco Cappato, Riccardo Magi, Silvio Viale, ma anche a quegli altri del Partito Radicale che nell’ingiusto e nel disumano delle prigioni, nel bugliolo, nella puzza e nelle violenze dell’universo concentrazionario ancora cercano e scoprono l’umanità dell’Italia, e sto parlando di Rita Bernardini, Maurizio Turco, Sergio D’Elia, dei militanti di Antigone e Nessuno tocchi Caino, di Maria Antonietta Farina Coscioni, Elisabetta Zamparutti, Irene Testa… Forse nessuno di loro ha visto e capito Nicosia perché la grande cultura radicale è in crisi? Dolenti e divisi, i radicali si contendono — molto male — eredità morali e materiali, e si espongono sia agli infiltrati e sia agli sciacalli che arrivano quando si alza il tanfo del disfacimento. Sono gli stessi sciacalli che già volevano chiudere Radio Radicale, e si spingono sino all’orrore di dire che questo Nicosia è il degno erede del Pannella che digiunava per la giustizia e per l’amnistia, contro l’ergastolo e le leggi speciali, per la mancata riforma penitenziaria, e contro lo Stato italiano che, secondo la Corte Europea, non custodisce ma tortura. Si sa che la fiducia regge il mondo. E i radicali sono sempre stati affidabili. Lo spread, a cui siamo appesi, è un indicatore di fiducia. E sulla fiducia si basano i mutui bancari. Scegliamo salumieri, pescivendoli e panettieri di fiducia, appunto. Così per i giornali dove una testata non vale un’altra. Persino i libri si comprano per l’affidabilità del nome: di Gallimard, Suhrkamp Verlag, Penguin e Adelphi ci si può fidare. Ebbene i radicali che entrano in carcere sono ancora la giustizia giusta e la verità scomoda di un mondo volutamente dimenticato. I radicali sono Cesare Beccaria, i soldati del diritto che ci distingue dai califfati, dai turchi di Erdogan, dall’Egitto di al-Sisi. Dei radicali hanno fiducia sia i carcerati e sia i carcerieri. Quando dunque dalla fiducia emerge l’empietà, lo scandalo è più grave perché sporca il mondo dei valori, ne mostra la fragilità e la possibile corruzione. Ma al tempo stesso dovrebbe rafforzarli perché li mette in guardia. Da più di dieci anni il trafficante di valori è una nuova maschera italiana, un unico carattere che contiene mille identità. E però i magistrati malandrini come Silvana Saguto non hanno distrutto la magistratura. E gli antipizzo beccati con il pizzo in tasca come Roberto Helg hanno migliorato la battaglia contro il pizzo. Ci ha reso meno creduloni la vicenda del giornalista Pino Maniaci che aveva la schiena dritta in pubblico ma, di nascosto, la piegava. E siamo diventati diffidenti vedendo che i corrotti venivano arrestati mentre aprivano convegni contro la corruzione, come l’ex vicepresidente della Regione Lombardia Mario Mantovani condannato a 5 anni e 6 mesi. Ricordate Totò Cuffaro? Fu lui a introdurre la novità epocale del mafioso che si sputava addosso, si sfregiava, si oltraggiava. Quand’era presidente della Regione siciliana inventò infatti lo slogan: “la mafia fa schifo”. Poi fu condannato per mafia. Inaudito? Oggi questo Nicosia che trafficava in pizzini per conto della mafia è l’inaudito radicale. E gli eredi della grande tradizione garantista italiana male fanno ad accusarsi reciprocamente di non essere abbastanza radicali invece di addossarsi tutti insieme, non certo le colpe del farabutto Nicosia che non hanno, ma la responsabilità della decadenza di cui Nicosia è la spia, l’indicatore, il segnale, il cattivo odore. Lo sciacallaggio in Italia è ormai una banalità ma, se i radicali non fossero ridotti così male nessuno si permetterebbe di volare tanto basso, con l’idea che gratta gratta, dietro Nicosia c’era la banda Bassotti dei garantisti, e che in fondo anche Pannella era solo un complice di Al Capone.

Una provocazione mirata contro Liliana Segre, che sarebbe intervenuta di lì a qualche ora ad un incontro pubblico poco lontano. Lo striscione dei neofascisti di Forza Nuova, appeso a delle inferriate vicino alla sede del municipio 6 milanese, recitava “Sala ordina: l’antifà agisce. Il popolo subisce”. Ed è stato subito rimosso. «Hanno messo lo striscione di notte sulla cancellata del nido di fianco al teatro, vorrebbero intimidirci ma non ci lasciamo spaventare», dice Santo Minitti (Pd), presidente del municipio, una zona popolare e semiperiferica del Giambellino e Lorenteggio. La senatrice a vita, sopravvissuta al campo di concentramento di Auschwitz e da mesi subissata di insulti sul web (ne riceve oltre 200 al giorno, raccontò Repubblica), aveva in programma una conferenza davanti a centinaia di studenti e studentesse assieme a don Gino Rigoldi, presidente di Comunità nuova e cappellano del carcere minorile Beccaria. Ha ricevuto un premio dall’associazione Articolo 3 per «il suo quotidiano e costante impegno a mantenere viva la necessità di valori civili e morali senza cui si sono conosciuti orrori e barbarie» e nel salutarla i numerosi ragazzi presenti hanno intonato Bella ciao. «Liliana — spiega il presidente dell’Anpi provinciale, Roberto Cenati — è per tutti noi riferimento fondamentale per il suo continuo richiamo a non essere indifferenti di fronte alle ingiustizie, alle discriminazioni e alla deriva xenofoba e antisemita che sta investendo l’Europa e il nostro Paese». Nel frattempo a Matteo Salvini che ha espresso il desiderio di incontrarla dopo la contestatissima astensione parlamentare della Lega sull’istituzione di una commissione contro l’odio e il razzismo, che prendeva spunto proprio dalle offese ricevute da Segre su internet, lei ha risposto di essere disponibile: «Se io non odio, perché non dovrei aprire la porta? Certo che lo incontrerò». Sempre a proposito di antisemitismo, un altro caso si registra a Rimini. Sulla porta dell’assessorato alla Cultura del Comune infatti è stata ritrovata una stella di David — simbolo dell’ebraismo, durante il nazismo gli ebrei erano costretti a portarla sulle proprie giacche per essere riconoscibili — appoggiata per terra. «L’episodio si è verificato nella settimana in cui ha preso il via il nuovo anno formativo previsto dall’attività di educazione alla memoria, che coinvolge oltre 220 studenti delle scuole superiori — sottolinea l’amministrazione comunale riminese — Non possiamo che condannare l’autore di un gesto che lascia molto amaro in bocca».

Ministro Lorenzo Fioramonti, le sue tesi sono tornate in minoranza: i fondi per la ricerca, l’università e ovviamente la scuola, comparti che lei amministra, non si vedono. Le tasse sulle bevande gassate e gli alimenti industriali non porteranno risorse al mondo della conoscenza. «Non possiamo continuare ad amministrare un Paese con la paura di perdere consenso, alla fine tutto questo si trasforma in paura del futuro. Stiamo vivendo un momento storico e abbiamo un’occasione irripetibile: un governo progressista può e deve sincronizzare l’Italia sull’orologio delle nazioni più progredite, che da anni hanno già fatto quello che io provo a proporre. A partire da un finanziamento importante, continuo e puntuale a ricerca, università e scuola». Che distanza c’è tra i tre miliardi di euro che chiede e le risorse oggi sul tavolo? «Larga. Dopo una serie di esecutivi che hanno tagliato sull’istruzione, non mi posso accontentare di un governo che smette di prelevare soldi dal Miur. Bisogna investire e con forza». Nella bozza della Finanziaria , articolo 29, si fa il contrario. Le spese per il personale degli enti di ricerca vengono vincolate al 70 % delle spese generali. Un limite più stringente di quello esistente per le università e che non consentirebbe, per esempio, di assumere i ricercatori del Cnr che la legge Madia ha già previsto. «Quei limiti vanno rivisti, sono stati inseriti dalle manine burocratiche di cui ho parlato nei giorni scorsi. Bisogna mettere soldi sulla ricerca, non nuovi vincoli. E non è certo bello scoprire su Internet l’esistenza di norme che riguardano il mio settore senza che nessuno mi abbia mai coinvolto». L’articolo 28 della Legge di bilancio, quello che fa nascere l’Agenzia nazionale per la ricerca, è già contestato dal mondo scientifico. Sei membri su nove sono di nomina politica. «L’Agenzia per la ricerca, che, va detto, in una bozza preliminare saltava a pie’ pari il ministero che guido io, dovrà essere fondata su un profondo confronto con il mondo della scienza e della ricerca. E dovrà essere guidata da una personalità scelta attraverso una selezione scientifica, su parametri scientifici, uno scienziato con una profonda conoscenza della ricerca in Italia e all’estero». La sua battaglia per un’industria meno inquinante, un cibo meno industriale e il sapere al centro della politica fin qui non è vincente. «Le industrie plastiche se non cambiano modo di produrre tra due anni chiuderanno. L’obesità è un male e un costo per il Paese. La conoscenza, poi, guida tutte le nazioni che in queste stagioni vedono crescere il loro Pil. Mettere piccole tasse di scopo che invoglino le aziende a migliorarsi e spingano le famiglie a rivedere abitudini sbagliate sono un piccolo prezzo da pagare oggi per avere minori costi, in salute per esempio, domani. E se tutto questo serve per girare risorse alla questione più importante di una comunità – la conoscenza, la futura conoscenza dei giovani – dobbiamo convincere il nostro Paese che siamo nella direzione giusta». Innanzitutto deve convincere il ministro dell’Economia. Gualtieri ha fatto in fretta a togliere dall’agenda l’Iva sui prodotti non salutari né di prima necessità. È bastata la sconfitta dell’alleanza di governo in Umbria. «Questo governo con questa Finanziaria deve fare tante cose, e io apprezzo lo sforzo: non far aumentare l’Iva, ridurre il cuneo fiscale, intervenire sulla sanità. Ma quella che io propongo è una questione centrale: ricerca, università, scuola. E il dibattito fin qui è stato insufficiente. Giorno e notte lo riproporrò e seguirò i lavori parlamentari, so che una Legge di bilancio ha un cammino lungo». Rischia di passare per il bastian contrario del governo. «In cima ai miei pensieri non c’è il consenso, so di che cosa ha bisogno il mio Paese e lo perseguo con convinzione. Poi, magari, scopro che la tanto sbeffeggiata tassa sulle bollicine è gradita al 70-80 % dei cittadini, che un’intera generazione di giovani vuole un mondo più pulito. Di fronte a tutto questo, Salvini chi è?». La promessa si avvicina: “O tre miliardi a scuola e università o mi dimetto”. «So che cosa ho detto e so che sono un uomo di parola.

«Ma avete visto come stanno messi questi qui? Come sono ridotti? Quanto mi sto divertendo adesso…». Compare un ghigno beffardo sul volto di Giancarlo Giorgetti mentre indica l’aula di Montecitorio poco distante. Il numero due della Lega siede su un divanetto del Transatlantico con l’aria di chi si sta gustando lo spettacolo. E non fa niente per nasconderlo. «Dicevate che Salvini è un cretino. E invece, adesso si sta capendo tutto. E non mi riferisco solo all’ex Ilva: quel che ha fatto Matteo in estate si sta rivelando un investimento sul futuro. Vedrete, vedrete…», ammicca l’ex sottosegretario alla Presidenza del governo gialloverde, il leghista che per 14 mesi è stato l’incubo di Luigi Di Maio a Palazzo Chigi. Poi riprende il filo del discorso: «Questo dell’acciaieria alla fine è stato uno dei tre motivi principali dell’apertura della crisi: i no reiterati dei nostri alleati su Taranto, sulla Tav, sugli inceneritori… Non c’era modo di portare un provvedimento serio come quello sull’ex Ilva al Senato che cinque o sei dei loro erano pronti a non votare la fiducia». Anche il look adesso è decisamente casual, dismesso quello da Palazzo Chigi, il deputato semplice indossa abito e camicia bianca, ma senza cravatta e sneaker blu in tinta col vestito. Sostiene che per come si sono messe le cose, tra manovra e emergenze, il governo Conte 2 «farebbe bene a chiuderla qui – si fa serio – E soprattutto, se fossi al posto di quelli del Pd scapperei a gambe levate, me ne andrei all’opposizione». Nonostante gli ultimi risultati alle regionali? Nonostante i sondaggi? «Per carità, possono anche andare avanti, ma ancora un po’ e saranno azzerati: conviene a loro, più che a noi, interrompere prima di fare altri danni. Poi se vogliono, facciano pure, per noi c’è solo da guadagnare. Vista l’Umbria?» Hanno visto tutti come la Lega si è fermata poco sotto il 40% e il centrodestra si è consolidato come prima coalizione. Ma l’Italia è un’altra cosa – viene fatto notare al politico di lungo corso Giorgetti – e l’Emilia Romagna al voto il 26 gennaio, soprattutto, è un’altra cosa ancora. «Io non ho letto gli ultimi sondaggi – spiega prima di rientrare in aula per l’esame del decreto fiscale -. Ma non penso affatto che il Pd la possa spuntare, alla fine vinciamo noi con Lucia Borgonzoni. Di una cosa però sono certo: Stefano Bonaccini farebbe bene a correre da solo piuttosto che in cordata coi 5 stelle. Questo è poco ma sicuro». Il 26 gennaio tuttavia è lontano. Prima, c’è da risolvere la grana di Taranto, i 10 mila posti a rischio, ArcelorMittal che minaccia di abbandonare lo stabilimento. «Stiamo assistendo alla messa in scena di una multinazionale che sta cercando di prendere quanto più possibile dal governo in carica», è la tesi del “bocconiano” Giorgetti. «Ora il massimo sarebbe se dopo tutto questo pasticcio la soluzione sarebbe l’ingresso dello Stato nella società che produce acciaio. Allora sì, torneremmo al “fattore M”, come ai tempi di Mussolini. Ma nel senso che il pubblico si metterebbe a produrre acciaio, magari per costruire che? Carri armati? Che di questi tempi poi, tornano utili, no…?» ironizza. A un certo punto in Transatlantico lo avvistano la capogruppo di Forza Italia Mariastella Gelmini e il deputato veneto dello stesso gruppo Marco Marin, arrivano e si siedono al suo fianco, lei da una parte, lui dall’altra. Parlano fitti per una decina di minuti. Nel centrodestra c’è aria da ritorno ai vecchi fasti, si sono solo capovolti gli equilibri, esiste solo una destra-centro. Quando gli amici berlusconiani si allontanano, il vicesegretario torna alle amenità: «Quel che mi impensierisce davvero in questi giorni è il mio Southampton, nel fine settimana vado in Inghilterra a vederlo, c’è lo scontro fondamentale con l’Everton. È tosto l’Everton quest’anno, eh». Da quando non è più in prima fila al governo si è presentato con la sciarpa da tifoso più di una volta al St. Mary’s Stadium, riesce a coltivare decisamente meglio la passione per la Premier League. A Roma preferisce gustare invece l’altro «spettacolo», dice, quello che va in scena dentro e fuori l’aula: «Me lo sto gustando tutto, ah, quanto mi sto divertendo…».

Sostiene Ignazio, 49 anni, operaio livello 4, impianto rivestimento tubi, che tutto è cambiato una mattina di sette anni fa, in via d’Aquino, la strada bene di Taranto. «Un tempo, passeggiando, era un continuo: Ignà, lo vuoi un curriculum? Ignà come deve fare mio figlio per entrare in fabbrica? Poi, un giorno un amico mi disse: Ignà, che coraggio, ancora lì lavori?». Gli occhi di Ignazio De Giorgio sono gli occhi degli ultimi 25 anni di Taranto, lo sguardo degli ultimi 30 anni di questo vulcano chiamato Ilva, grande due volte la città che brucia tutto quello che gli gira attorno e sputa come magma sogni, morti, veleni, progetti e cassa integrazione. «La prima cosa che mi hanno detto quando sono entrato qui dentro, da apprendista, è che niente dentro la fabbrica è piccolo. Tutto, invece, è grande. Anche un bullone: lo immagini grande come un dito e invece il più piccolo è quanto il mio braccio. Ecco, Ilva è così: ogni cosa è enorme. Anche i casini…». Ignazio ha messo per la prima volta la tuta blu, che porta ancora oggi, quando aveva 24 anni. Non fumava ancora il sigaro che oggi muove, invece, nervosamente fra le mani segnate da tutto questo lavoro. «Tubi, rivesto tubi. Da quando sono qui dentro, questo è il mio mestiere. Non è cambiato niente. Quando invece sembra essere cambiato tutto. Questa è la mia storia di operaio, ma è anche la storia di questa fabbrica e di questa città». «Non sognavo di fare il metalmeccanico – continua – E infatti ero andato via, a Vicenza. Poi sono tornato: non sopportavo quel cielo, avevo bisogno di casa mia. Qualche mese dopo avevo due anni di contratto di formazione. A casa ci fu la festa». Il siderurgico fino a quel momento era stato sempre ragione di festa. Quando nel 1959 per la prima volta si parlò dell’arrivo dell’Italsider a Taranto, l’allora sindaco Angelo Monfredi scrisse: «Alla notizia la città esultò. Fu scomodato persino un complesso bandistico che portò in ogni rione l’annuncio tanto atteso. La città cominciava finalmente a guardare al suo futuro con serenità. C’era fame di buste paga, posti di lavoro, tranquillità economica, serenità. Se ce lo avessero chiesto avremmo costruito lo stabilimento anche in pieno centro cittadino. Sul lungomare!». In realtà non lo costruirono troppo lontano. Per non eccedere nei costi dei nastri trasportatori, che dovevano portare il materiale dal porto alla fabbrica, dalla fabbrica al porto, fu scelta una zona confinante con un quartiere, il Tamburi. A quindici passi dal cimitero, di San Brunone. «Nessuno si pose il problema: farà male?», dice Ignazio che nella borsa ha panini al tonno per gli operai che stanno discutendo in fabbrica del loro futuro, mentre l’amministratore delegato Lucia Morselli esce ed entra dalla fabbrica. «Quando sono entrato qui dentro si respirava ancora l’aria dell’Italsider. Rilassata. Quando arrivarono i Riva cambiò tutto». Cosa? «Non potevamo allontanarci nemmeno per pisciare. Ci portavano a timbrare in pullman con le tute addosso, per non perdere tempo. Straordinari su straordinari. Non si poteva dire di no. La fabbrica era un vulcano che non smetteva mai di funzionare. E noi non avevamo il coraggio di ribellarci come avremmo dovuto: Ilva era un privilegio. Prima di entrare qui guadagnavo 500 mila lire al mese. Dopo, un milione e 800. Ma i soldi non sono tutto. Per questo cominciai a studiare. A parlare». Ignazio vedeva amici e parenti ammalarsi. E morire. Più di altrove. E non ebbe paura. Ci volle coraggio: i Riva avevano individuato una zona della fabbrica, la palazzina Laf, dove confinavano i dipendenti scomodi. Chi protestava, chi parlava finiva lì, a fare nulla. Se non a impazzire. «Non ci si fermava mai. Si rompeva un pistone, si sostituiva in un baleno. I capiturno erano come generali, forti anche delle coperture legali che la fabbrica li assicurava». Significa che pagavano gli avvocati per le decine e decine di processi che ci sono stati per i morti di Ilva. Lo sa Francesca Caliolo. Suo marito Antonino Mingolla lavorava per una ditta dell’indotto. Il 18 aprile del 2006 fu investito da una nube tossica mentre sostituiva una valvola. Non ebbe scampo. Dieci anni dopo sono stati tutti condannati, ma a Francesca resta un’altra immagine nella testa: «Un giorno fui affrontata da un dirigente dell’Ilva. Mi disse: va bene, fai tanto casino, ma alla fine tuo marito non c’è più. Ma noi siamo sempre qui. Voleva dirmi che nulla può cambiare, a Taranto. In questi anni più volte ho pensato avesse ragione». In realtà tutto sembrava essere cambiato. I Riva, gli intoccabili che compravano politici e giornali, e dunque consenso, crollarono. Ad abbatterli furono due casalinghe che, stufe di raccogliere polvere sui balconi di casa, mandarono una busta in procura. Per chiedere: perché? Una delle prime inchiesta su Ilva nacque così. E poi un gregge di pecore, abbattuto perché pascolava troppo vicino al siderurgico. Erano contaminate. E analizzando il loro formaggio, per la prima volta, fu possibile provare scientificamente che la diossina che le aveva intossicate era quella dell’Ilva. Dopo arrivò uno studio, sul tavolo dei magistrati: a Taranto + 37 % di linfomi rispetto al resto della Puglia, + 28 di tumori al fegato, +145 di mesoteliomi. I Riva furono arrestati. In fabbrica tornò lo Stato, con i commissari. In città arrivarono i grillini: uno su due votò per Alessandro di Battista che, qui sotto, venne a urlare: «Cacceremo via il mostro». «E invece il mostro è ancora qui» dice Ignazio d’Andria, del mini Bar, il punto di ritrovo dei Tamburi. Avanti c’è la chiesa dove prima si celebravano i matrimoni e ora invece i funerali degli operai dell’Ilva. «Sai cosa manca? La speranza» dice mentre mostra la maglietta che Nadia Toffa, la Iena, aveva creato e venduto: «Je Iesche pacce pe te!» c’è scritto, Io esco pazzo per te, che è più di una dichiarazione d’amore, visto che questa maglietta ha fatto più dello Stato. I ricavati della vendita hanno dato il contributo decisivo per aprire il reparto di Onco-ematologia pediatrica di Taranto. Per capire di cosa stiamo parlando: nella chiesa del Tamburi c’è il dipinto di un Cristo davanti alle ciminiere. Le scuole chiudono nei giorni di vento, troppo pericoloso uscire di casa. E dunque anche giocare. «I bambini – racconta Francesca, maestra elementare – colorano di nero le nuvole». Mentre le cappelle del cimitero di San Brunone, a quindici passi dal siderurgico, sono rosa: per non far sembrare i morti, almeno loro, sporchi di minerali. Per anni hanno detto: diritto al lavoro o diritto alla salute. «È meglio vivere, in qualunque modo possibile, che cibarsi della propria morte» ha scritto ieri il figlio di un operaio Ilva. Siamo al cannibalismo culturale «perché la politica ha abdicato al suo ruolo: affrontare la complessità», spiega Fabio Boccuni, operaio anche lui. Sul quartiere oggi fa ombra un’enorme struttura metallica, imponente come la Torre Eiffel: è la copertura dei parchi minerali, quella che dovrebbe evitare la dispersione delle polveri inquinanti. E dunque consentire ai bambini di uscire di casa anche nei giorni di vento. È la grande opera che doveva far cominciare l’era Arcelor, quella che sembra già finita. «La copertura l’hanno realizzata con i soldi che lo Stato hanno preso ai Riva. Ora dicono che vanno via, ma forse lo dicono per restare e risparmiare. Forse tornerà lo Stato. Forse finiremo in cassa integrazione. Ma noi stanchi e scoraggiati. Quando ci fu l’annuncio dell’arrivo Arcelor qui fuori arrivarono in decine e decine con i curriculum in mano. Era tornata la speranza del lavoro. E invece gli indiani non hanno tirato fuori una lira: guarda la tuta. Ho ancora scritto Ilva. Non ci hanno comprato nemmeno quelle nuove», sostiene Ignazio.

Il porto di Trieste resterà italiano. Ma il memorandum d’intesa firmato ieri a Shanghai tra l’Autorità portuale del Mare Adriatico Orientale e il colosso cinese China Communications Construction Company (CCCC), che si propone di creare un canale logistico-distributivo tra Italia e Cina, sviluppando la dotazione infrastrutturale sui rispettivi territori, non è che l’ennesimo tassello della strategia espansiva cinese in Europa. Una strategia che ha trovato il suo perno (e il suo gioiello più prezioso) nel porto del Pireo, dato in concessione alla società statale cinese Cosco (che gestisce 37 porti in tutto il mondo), finanziata con soldi pubblici, e poi a questa venduto al 67% per 368,5 milioni di euro. Una storia di successo se si guarda all’enorme sviluppo logistico del porto ma anche una spina nel fianco, se è vero che le imprese locali non riescono a intestarsi nemmeno un contratto d’appalto mentre le merci cinesi hanno trovato un ampio porto d’approdo nel Mediterraneo. L’espansione è proseguita con il porto di Malta (24,5%) e quello di Salonicco, rilevato da un consorzio cino-franco-tedesco, del quale però la società cinese China Merchants Holdings International ha poi rilevato la quota francese. Ed è proprio in Francia che si registra la maggiore presenza cinese, con l’acquisizione di quote nei porti di Dunkerque, Saint-Nazaire, Le Havre e Marsiglia. A seguire ci sono la Spagna, con Bilbao e Valencia, e il Belgio con Zeebrugge e Anversa. Infine l’Olanda con Rotterdam e l’Italia con Vado Ligure. Il nuovo terminal container savonese, controllato dall’olandese Apm Terminals al 50,1%, da Cosco al 40% e da Qingdao Port International Development al 9,9%, sarà inaugurato il prossimo 12 dicembre. Imponente la dotazione infrastrutturale, a partire dalla piattaforma di 210 mila metri quadri sul mare, pari a quasi 40 campi di calcio.