Floriana Bulfon

La Svizzera non va più di moda, Panama è diventata scomoda, le Bermuda troppo sospette e il Lussemburgo troppo costoso. Ma l’evasore grande e medio ha già trovato un’altra oasi, che offre zero tasse e tanta riservatezza: gli Emirati Arabi. Grattacieli altissimi e controlli bassi, banche efficienti e regole carenti: la Mecca del quattrino in nero, che approda lì dopo avere rimbalzato tra fatture di comodo e costi gonfiati. Tutti sanno che è la nuova meta del denaro in fuga dal Fisco, anche gli investigatori delle Fiamme Gialle e della Agenzia delle Entrate. Eppure quando la scorsa primavera i Paesi dell’Ue hanno deciso di punire gli emiri, inserendoli nella lista nera di chi accoglie capitali grigi, l’Italia ha fatto di tutto per cercare di impedirlo. Siamo arrivati al punto di minacciare il veto, con il ministro Giovanni Tria trasformato in ambasciatore degli arabi «che hanno già preparato una legislazione e la devono solo approvare». Oggi che la lotta all’evasione è diventata il mantra del governo Conte Bis, chissà se il premier ricorda le scelte di pochi mesi fa. Perché se si vuole fare la caccia grossa alle tasse sparite, è proprio agli Emirati che bisogna guardare: l’unico paradiso fiscale che resiste alle pressioni internazionali. «In questo momento storico godono di una sorta di protezione da parte degli Stati Uniti, l’unico Paese che finora è riuscito a costringere gli altri ad aderire a standard di trasparenza”, spiega il tributarista Sebastiano Stufano, ex ufficiale delle Fiamme Gialle che ha condotto alcune delle indagini di Mani Pulite: «Washington si è fatta sentire con la Svizzera, mentre non interviene sugli Emirati». E proprio quando Berna ha di fatto ammainato il segreto bancario, i soldi da nascondere sono partiti da Zurigo e Ginevra verso Dubai ed Abu Dhabi. Spiega Stufano: «La voluntary disclosure del 2015 stabiliva che gli apporti di denaro nei cinque anni precedenti dovessero essere tassati ad aliquota ordinaria. Di fatto significava lasciare circa il 70 per cento del patrimonio e così in molti hanno dirottato i fondi dalla Svizzera agli Emirati». Parliamo di cifre enormi: «Per ricercare quegli oltre 100 miliardi scomparsi dagli istituti elvetici con la caduta del segreto bancario bisogna seguire le tracce dei fiduciari che si sono spostati in città come Dubai» ragiona Paolo Bernasconi, ex procuratore pubblico in Ticino. Il meccanismo preferito è semplice: aprire una società limited a Londra, che poi fa da sponda formale per i trasferimenti negli Emirati. I clienti italiani più grossi sono quelli che si occupano di petrolio e gas, con strutture di trading che permettono di sfruttare al massimo i vantaggi erariali. Insomma, un pozzo nero che inghiotte centinaia di milioni. D’ogni provenienza, inclusi i riciclatori di mafia e i baroni delle tangenti. “È un percorso ormai consueto. In questo modo hanno un passepartout che consente di aprire conti di corrispondenza e far confluire il denaro» constata il generale Giovanni Padula della Guardia di Finanza. Per chi deve ricostruire le transazioni il cammino è tutto in salita. Come quello condotto dalla Polizia valutaria di Roma che proprio tra i palazzi degli sceicchi ha ritrovato parte dei milioni del prestanome di Moutassim Gheddafi, figlio dell’ex dittatore libico incluso nella lista dell’Onu per crimini commessi contro l’umanità. Prendere la residenza fiscale costa poco e si può scegliere tra quaranta zone franche create proprio per attrarre quattrini. Le distrazioni non mancano, tra campi da golf e hotel superlusso. L’attrattiva maggiore però è la possibilità di aprire società totalmente anonime: anche se le autorità italiane scoprono conti e ditte, non otterranno mai i nomi dei titolari. C’è un vero boom: «Grazie ad un’infrastruttura finanziaria e servizi professionali molto solidi, opacità societaria e soprattutto il ruolo dei governi che compongono l’Unione degli Emirati. Investono in molti settori dell’economia europea e questo fornisce anche migliori coperture politiche», sottolinea il ricercatore di Transcrime-Università Cattolica Michele Riccardi. Dalla free trade zone di Jebel Ali, 57 chilometri quadrati da una parte all’altra di Sheikh Zayed Road, scaturisce quasi un quarto del Pil di Dubai. E da lì si muovono pure anche 63 miliardi di sigarette di contrabbando ogni anno: «Transitano in 94 paesi dall’Arabia Saudita alla Libia e 1,3 miliardi finiscono in Italia. Solo la vendita di quelle consumate nel nostro paese genera ricavi per 700 milioni di euro» evidenzia Alberto Aziani nel recente studio Nexus di Transcrime. Un anno fa i Dubai Papers pubblicati in Francia dal Nouvel Obs hanno svelato una rete di duecento persone attive nel nascondere sotto le dune arabe i profitti di clienti d’ogni genere, inclusi mercanti d’arte italiani. I più importanti casi di evasione smascherati in Gran Bretagna e Australia, ciascuno per importi superiori al mezzo miliardo, portavano proprio agli Emirati. Per questo a pretendere che i principi del Golfo aprano gli scrigni è l’Europa intera. Qualcosa sta cambiando e i primi ricercati sono costretti a tornare indietro. Come Luigi Provini da Piacenza, accusato per un giro di frodi fiscali da 75 milioni sulle corse di F1 e rally. Anche sul fronte dei latitanti, però, molto resta insabbiato nel deserto emiratino.